Buon giorno a tutti,
Come altre migliaia di persone che lavorano all’estero (anche tanti colleghi MSC), in questi strani giorni di lock down, il mio pensiero oltre che all’Italia e’ rivolto al paese dove vivo: il Sudafrica.

Il mio amico editore Marco Pini (con il quale stiamo lavorando ad un progetto internazionale) mi ha suggerito un articolo dell’ Economist, che voglio condividere.
Il paese di Mandela sembra applicare egregiamente la lezione imparata dall’epidemia di Hiv (testo Elena Tebano, ndr.).
Siamo agli anni 2000, il Sudafrica riduce le cure per le persone sieropositive perché Thabo Mbeki (Presidente di allora) pensa che non sia l’Hiv a causare l’Aids.
Il risultato è disastroso: il Sudafrica ha oggi il numero più alto al mondo di sieropositivi, e da vent’anni l’Aids causa un terzo dei decessi registrati nel Paese!
Ma arriviamo ai tempi che viviamo e leggiamo con piacere che il Sudafrica è uno dei Paesi che stanno affrontando meglio l’epidemia di Covid:
«L’Hiv/Aids è stato un terreno di formazione per quello che stiamo facendo» conferma all’Economist l’epidemiologo Salim Abdool Karim, a capo dei medici che consigliano il governo.
Oggi i politici sanno infatti che un’epidemia si batte solo sulla base della scienza.
Succede cosi’ che il Sudafrica introduce le misure di distanziamento fisiche il 15 marzo e il blocco di tutte le attività il 27, riuscendo a impedire la crescita esponenziale delle infezioni (ora la curva dei contagi assomiglia a quella della Corea del Sud).
Ma soprattutto avvia un programma molto fitto di medicina territoriale:
30 mila operatori sanitari di prossimità vanno a cercare i contagiati di quartiere in quartiere. «Bisogna andare casa per casa, stare in comunità» dice Karim.

È la lezione imparata dall’epidemia di Hiv, che ha iniziato a rallentare solo quando il governo ha smesso di aspettare che la gente si presentasse in ospedale quando l’Aids era già conclamato, e ha iniziato a lavorare sulla prevenzione.
Questo approccio è fondamentale soprattutto nelle baraccopoli e nei quartieri poveri dove l’autoisolamento non è possibile, perché le persone non hanno lo spazio per vivere separate dagli altri.
«Una volta identificato un positivo al Covid-19, le squadre aiutano il residente con le cure mediche e, se necessario, con la quarantena.
Coloro che vivono nelle case circostanti saranno sottoposti a screening e potenzialmente testati», racconta il settimanale britannico.
L’obiettivo è testare il 10% della popolazione sudafricana, circa 6 milioni di persone, entro il 30 aprile, la data individuata per la possibile riapertura del Paese, facendo fino a 10 mila test al giorno nei laboratori pubblici (e dando la possibilità di farli anche ai privati).
Anche così sarà possibile solo rallentare i contagi e non fermarli, ma il governo avrà il tempo di organizzarsi per evitare le conseguenze sanitarie ed economiche peggiori dell’epidemia.
Speriamo bene.
Salvatore Siviero